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Il pop up, peccato originale del web

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view post Posted on 1/9/2014, 19:29
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Il pop up, peccato originale del web

L’inventore Ethan Zuckerman si pente e riflette sull’aver fatto della pubblicità l’unico modello di business

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«Perdonatemi se potete, perché la colpa è anche mia». Ethan Zuckerman è l’inventore del pop up, una delle prime - e di certo tra le più seccanti - forme di pubblicità sul web. Per nulla orgoglioso della sua scoperta, anzi profondamente pentito, il direttore del «Center for Civic Media» del Mit ha deciso di fare ammenda sul mensile statunitense Atlantic con una lunga riflessione su quello che definisce «il peccato originale del web»: la pubblicità, o meglio aver lasciato che la pubblicità diventasse l’unico modello di business sostenibile. Tra il 1994 e il 1999 Zuckerman ha lavorato per Tripodo.com, nato per sviluppare contenuti dedicati ai giovani laureati che dopo poco è diventato uno dei primi servizi di web hosting, incaricato anche di vendere pubblicità sui siti ospitati. Il suo problema era molto semplice: che cosa poteva offrire agli investitori? In mancanza di algortimi che potessero stabilire quale pubblicità fosse interessante, e per quale utente, e dopo le lamentele di una casa automobilistica che non gradiva di veder associato il suo brand a una pagina dedicata al sesso, Zuckerman capì che una soluzione poteva essere separare la pubblicità dal contenuto. E così scrisse il primo codice del pop up, un’inserzione pubblicitaria che compare a tradimento.

«Per come viene utilizzato oggi, il pop up è fastidioso come qualcuno che mette la mano di fronte allo schermo per non farti capire quel che stai leggendo - spiega Michele Boroni, esperto di marketing e consulente di comunicazione -. Se invece non impedisce la lettura può essere sopportabile, ma è difficile decidersi a guardarlo davvero: anche un prodotto che potrebbe interessare, se presentato in una fastidiosa finestra magari con musichetta, viene scartato il più in fretta possibile». Gli annunci che più funzionano sono quelli che “seguono” l’utente: durante una ricerca su Google su un divano in pelle o un televisore al plasma, i primi risultati che compaiono sono quelli sponsorizzati. Non solo: mentre guardiamo un video del nostro cantante preferito su You Tube, ecco riapparire l’offerta imperdibile. Come spiega Zuckerman nel suo saggio, nel tempo gli algoritmi che permettono di “seguire” gli utenti, mappandone gusti e preferenze, sono sempre più sofisticati e la pubblicità mirata e con molte più possibilità di colpire nel segno.

Questo però significa pagare un servizio, cedendo, in modo più o meno consapevole, una piccola parte della nostra privacy a ogni click. «Ecco il grande vantaggio della pubblicità su Internet - continua Boroni -. Sa quali sono le nostre richieste, quel che ci piace e quel che desideriamo. Questo certo comporta una serie di svantaggi: qualsiasi attività in rete viene spiata e catalogata. Oggi Google e Facebook da sole controllano più del 60 per cento del mercato pubblicitario. In Italia non è ancora attivo, ma presto anche i social network passeranno all’e-commerce; negli Stati Uniti, accanto a Like, è già comparso Buy».

Secondo Zuckerman, le conseguenze negative sono almeno quattro: è impossibile immaginare un modello di pubblicità online che non comporti la sorveglianza degli utenti; chi produce contenuti online sarà sempre meno stimolato non a produrre contenuti di qualità, ma adatti a generare traffico. Inoltre il modello basato sulla pubblicità tende ad “accentrare” il web: i grandi si affrettano ad acquisire i piccoli, rafforzando sempre più il proprio monopolio. Per finire, anche personalizzare le impostazioni dei siti che frequentiamo ha i suoi lati negativi, portandoci a non navigare più nel “mare libero” del web, ma a costruirci una piccola finestra su misura. «Due utenti di Facebook, ma anche due lettori del New York Times, rischiano di vedere un diverso quadro del mondo – scrive - disegnato dagli algoritmi di Facebook che hanno già deciso per loro quel che dovrebbero vedere».

«L’unica alternativa è convincere gli utenti a pagare contenuti e servizi. In molti tentano con i pay-wall, ma ancora oggi non sappiamo se può funzionare – conclude Boroni -. Gli ultimi esperimenti di “native advertising”, cioè articoli giornalistici sponsorizzati direttamente dalle aziende, dal punto di vista della libertà di espressione, sono ancor più preoccupanti. Trovare un’alternativa sostenibile alla pubblicità non è un affare semplice, anzi». Secondo Zuckerman, l’unico modo per riscattare il web dal dominio della pubblicità è decidersi a pagare per i servizi che più apprezziamo, con abbonamenti, donazioni o crowdfunding. «E’ ora di iniziare a pagare per proteggere la nostra privacy, sostenendo i servizi che amiamo – conclude - e abbandonare quelli che sono completamente gratuiti, ma guadagnano solo vendendo le preferenze e le scelte dei loro utenti».

Fonte Lastampa.it

Pensarci prima no, vero? -_-
 
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